sabato 14 luglio 2012

AUTOREVERSE FUMETTO↔FILM↔TELEFILM prima puntata

Cari amici,
stavolta vi "ammannisco", per quelli di voi che coltivano l'arte della pazienza, un mio piccolo - si fa per dire - saggio che fu pubblicato su Ol3media l'anno scorso. Può sembrare di no, ma vi assicuro che parla anche di telefilm. Lo divido in due parti, per il vostro bene! Ecco a voi quindi la prima puntata. Fatemi sapere, siate buoni, se siete d'accordo con le mie tesi o se pensate tutto il contrario, e perché. Questa possibilità di scambio è troppo preziosa per me!


holoband in Caprica
Ci piacciono le storie. Su questo non c'è nessun dubbio. Questo assunto può apparire banale, ma non è inutile ricordare da dove parte la fioritura multiforme del modo di narrare di cui siamo entusiasti testimoni ai nostri tempi. Che noi si stia seduti a gambe incrociate a pendere dalle labbra di un aedo che ci racconta le sconvolgenti e fantasiose peripezie di Ulisse o che si stia sprofondati in poltrone hi-tech a camminare per i vicoli tortuosi e saturi di pericolo di una strada virtuale che ci promette mille avventure virtuali in un mondo virtuale (stile Caprica intendo), quello che ci spinge è sempre provare emozioni per qualcosa che proviene da fuori di noi senza il rischio di un reale coinvolgimento, per immergerci nella vita di qualcun altro senza danno, per ricavarci, alla fine, magari, una maggiore conoscenza di noi stessi e del mondo.


DAL FUMETTO ALLA TELEVISIONE

C'era una volta il fumetto...
Detto questo, forse sarebbe il caso di sorvolare in questa sede sulla controversa separazione fra letteratura alta e letteratura popolare; eppure c'è una definizione di “fumetto” che si presta a qualche riflessione utile a questo proposito, quella di Scott McCloud, autore del volume Capire il Fumetto - L'arte invisibile, saggio scientifico sul fumetto1 realizzato interamente a fumetti: «Immagini e altre figure giustapposte in una deliberata sequenza, con lo scopo di comunicare informazioni e/o produrre una reazione estetica nel lettore». 

Leggendo questa definizione può venire anche in mente un'altra sequenza di immagini, ben più antica e su un supporto decisamente più solido, cioè la storia di San Francesco narrata dagli affreschi di Giotto sui muri della Basilica di Assisi; o, se è per questo, molti altri cicli pittorici e scultorei di tutta l'antichità e del Medioevo che avevano lo scopo di raccontare storie importanti per qualche ragione a persone che potevano anche non saper leggere.

E allora sì, letteratura popolare. E già che ci siamo, cosa ci impedisce di scomodare, con voluta impertinenza, altre manifestazioni artistiche basilari della storia della civiltà occidentale, come il teatro greco, che, prima di diventare letteratura, aveva lo scopo molto concreto di canalizzare messaggi densi di intenti didascalici ai cittadini delle poleis per portarli al pensiero del ceto dirigente, che quegli spettacoli anche a questo fine finanziava?2 Prima che il messaggio, per l'incisività del contenuto e per la bellezza della forma, diventi arte e letteratura, c'è una necessità di comunicazione che usa la scrittura e/o l'immagine per giungere ai destinatari. La semplicità o la complessità del messaggio attengono a un'altra storia che non può essere trattata qui; ma dissertare di cinema, di televisione e di fumetto implica in generale contenuti non troppo elitari.
Letteratura popolare?
Torniamo dunque a parlare di letteratura popolare, intendendo ora, in questo contesto, quella che, dopo la rivoluzione della stampa nel Cinquecento e l'allargamento della borghesia, rispose al bisogno immediato e apparentemente poco riflesso di tali classi genericamente definite borghesi che, nel corso dell'Ottocento, maturarono un bisogno di cultura immediatamente fruibile, che non si dovesse insomma decodificare da strofe in endecasillabi. Ecco quindi che ci troviamo, senza nemmeno accorgercene, a leggere, puntata dopo puntata, le vicende dei nostri eroi preferiti nel nostro romanzo d'appendice e poco importa a questo punto che sia Dostoevskij o Liala che ci stregano dalla carta stampata della nostra rivista, a guardarci la nostra bande dessinée, o comics o fumetto che dir si voglia, attendendo con ansia la prossima razione settimanale. A questo punto della vicenda appassionante del nostro congenito amore per le storie, non è troppo cambiato il nostro ruolo di fruitori paganti: dovremmo retribuire l'aedo alla fine della sua performance, acquistare il nostro libro, comprare la rivista che vende pubblicità grazie alla nostra passione o corrispondere la quota mensile dell'abbonamento a Sky o ad altri.

Le sfumature della serialità
Soffermiamoci allora sui legami che, traendo origine dalla serialità del feuilleton, collegano il fumetto alla serie televisiva con fermate intermedie e ricorrenti per il cinema.
Questo il fenomeno in questione: la reciproca influenza che questi media hanno esercitato ed esercitano gli uni sugli altri proprio sull'onda delle mode cui noi lettori/spettatori diamo origine.
Qui si vorrebbe avanzare alcune ipotesi a partire da alcuni casi specifici che possono essere significativi di tale influenza.
Focalizziamo la nostra attenzione sul fumetto: nato all'inizio dell'Ottocento, soprattutto per una fascia adulta di lettori, trova nel Novecento la sua vocazione: quella di narrare ad adolescenti, e a chi adolescente non voleva smettere di sentirsi, avventure mirabolanti di eroi senza macchia e senza paura che, soprattutto nel primo dopoguerra, rispondevano al bisogno di rassicurazione delle masse. Capitan America della Marvel, Superman della DC comics e via così. Le avventure erano autoconclusive, nel senso che, rispondendo alle elementari norme della narratologia, in base allo schema di Propp, c'è un “equilibrio iniziale (inizio)”, una “rottura dell'equilibrio iniziale (movente o complicazione), le “peripezie dell'eroe”, e alla fine, il “ristabilimento dell'equilibrio (conclusione)”. Sostanzialmente ci si immedesima nei problemi del protagonista e quando lui, usando forze che pure noi vorremmo avere, finalmente ne viene a capo, noi possiamo finalmente tirare quel sospiro di sollievo che è il fine di tutto. Quindi fumetto vuol dire genere di consumo, come un'aspirina che, senza tante storie, diagnosi e complicazioni, ci fa passare il mal di testa quando ci viene. Questo può essere sempre vero. Molti stimati professionisti che conosco, che leggono Tex da anni e anni, vogliono questo e questo ottengono. Oppure si può volere altro.

Dagli anni '70 i fumetti hanno cominciato a cambiare. Accenno solo di sfuggita a qualcosa che ha già fatto scrivere saggi in merito e che altri ne necessiterebbe: la svolta che Chris Claremont nel 1975 diede alla testata marveliana degli X-Men. I personaggi, nelle mani di questo apprezzato autore, diventarono a tutto tondo, le loro storie corali acquistarono un percorso diacronico intrecciandosi e toccando livelli di approfondimento esistenziale che coinvolsero sempre più una fascia giovanile più alta e più matura. Le trame dunque non si svolsero più in una puntata, o in una manciata di puntate, ma si dipanarono nel corso di anni, ottenendo l'effetto di fidelizzare un gran numero di lettori. Il fumetto, per certi fenomeni e certe testate, tornò agli adulti da cui parecchio tempo prima era partito. Nello stesso tempo non mancava il villain di turno e la vicenda dell'albo e quella del mese o dell'annata convivevano armonicamente. Claremont lavorò con Dave Cockrum e John Byrne e la “Saga di Fenice nera” è forse una delle storie più celebrate della serie.
E di serie appunto qui è il caso di parlare; al di là del fatto, noto a tutti, che dalla Saga di fenice nera è stato tratto il film X-Men - Conflitto finale (X-Men: The Last Stand) del 2006 diretto da Brett Ratner. Il punto da focalizzare è proprio invece il fenomeno della serialità.
Da quel momento in poi i telefilm hanno cominciato a seguire la stessa strada. Non più o non solo sit-comedy che lasciavano il protagonista allo stesso punto da dove era stato preso. In precedenza i personaggi rimanevano cristallizzati nei loro tratti fondamentali, fissi a volte in una caratterizzazione da macchietta che garantiva allo spettatore di trovare quello che si aspettava di trovare, senza complicazioni, in modo rassicurante. 
Morticia Addams3 riscuoteva l'effetto voluto, proprio nella sua placida coerenza al proprio sistema morale ed estetico alternativo, che, per la legge del contrario, suscitava ilarità. Non ci si aspettava che cambiasse. Un po' come una maschera del teatro dell'arte: non ci si può aspettare da Arlecchino niente al di là di quello che è solito dare. Eppure Goldoni nel Settecento di lì è partito per ampliare, approfondire e rendere più umani i personaggi. In modo similare la psicologia dei protagonisti e comprimari dei fumetti e poi delle serie ha cominciato ad acquistare rilievo e quindi profondità, soprattutto grazie alla possibilità del tempo lungo.
In televisione quindi nel frattempo lo svolgimento seriale ha cominciato a “schiavizzare” lo spettatore, ma a livelli diversi; è ovvio che si può citare Beautiful, ma si può anche osannare gli X-Files che, come sappiamo, hanno prodotto fan in ogni parte del mondo e creato un nuovo modo di fare telefilm (come li chiamiamo in Italia). Il fascino della storia risiedeva proprio nel fatto di poter esplorare, lentamente e gradualmente, le profondità psicologiche del personaggio, di poter scoprire, attraverso magari flashback, i motivi reconditi dei suoi comportamenti, e soprattutto di poter assistere e condividere i mutamenti e le evoluzioni della sua personalità, la sua crescita umana. Il tempo lungo rendeva possibile ciò.
Che si può aggiungere a quanto di autorevole è stato già detto? Nulla. Si vuole solo umilmente sottolineare che l'evoluzione narrativa e la crescita personale ed esistenziale di Shadowcat, adorabile personaggio degli X-men, e la lenta mutazione di Scully, dall'inizio alla fine delle nove annate di X-files da scettica scientista a razionale credente (l'ossimoro è solo apparente), sono collegate, e non solo dalla X. 
I mutamenti, quelli che ci fanno soffrire nella realtà, mediante l'arte sapiente di una sceneggiatura autoriale, non lasciano i personaggi allo stesso punto di quando sono partiti.



Avventure a lungo termine
Nel frattempo nel 1987, l'Uomo Ragno, nei fumetti, si è anche sposato, dando addio per un po' all'eterna dinamica di fidanzamento perpetuo stile Topolino e Minnie di molte coppie fisse della carta stampata e della fiction televisiva. Non si cita a caso lui fra i supereroi, infatti l'Uomo Ragno, nato intorno al 1962, raggiunge proprio dagli anni Settanta la massima diffusione e sembra essere il primo supereroe che interessa i lettori anche per le proprie vicende familiari e personali, per l'intimo dissidio fra la vita normale del timido Peter Parker e le avventure a difesa dell'umanità dell'“amichevole Uomo Ragno di quartiere”. “Da un grande potere derivano grandi responsabilità” e via con i dilemmi morali e i problemi quotidiani che avvicinano l'eroe al lettore.
Nel frattempo più o meno in quegli anni la serie Moonlighting (1985-1989) vede Bruce Willis e Cybill Sheperd nei panni di due improbabili detective porre fine alla  UST “tensione sessuale irrisolta” mettendosi insieme e dimostrando quanto proprio quella tensione calamiti l'attenzione degli spettatori. Infatti gli ascolti della serie calarono da quel momento. Da allora gli sceneggiatori delle varie serie con coppie fra i protagonisti hanno dovuto cominciare a fare i salti mortali per non far cadere gli ascolti, tipo le otto stagioni prima che Moulder e Scully portassero a conclusione il percorso di reciproco avvicinamento e riconoscessero l'importanza sentimentale del loro rapporto nella serie scatenando così il planetario sospiro di sollievo che ne è derivato.
Anche recentemente i rapporti fra i protagonisti più che le trame verticali del singolo episodio sono oggetto di gradimento da parte degli spettatori, e non solo rapporti di coppia, ma le dinamiche fra fratelli (Supernatural, The Vampire Diaries) o fra genitori e figli (Fringe). 
Tutti processi che hanno nella durata e nella lenta evoluzione il loro segreto e che consentono agli attori impegni e soddisfazioni professionali forse maggiori che nel passato, tanto che star del grande schermo approdano con soddisfazione alle serie. Gli sceneggiatori poi non sono più degli sconosciuti, noti solo agli addetti ai lavori, ma diventano famosi al grande pubblico, quelli almeno capaci di dare impronte originali e profonde ai personaggi, ai rapporti, alle trame, alle serie insomma, riconosciute a naso dai fan, che tributano onore al merito del tocco autoriale.

Romanzi di formazione?
I personaggi che amiamo e seguiamo puntata dopo puntata, anche più di quelli che pur ci conquistano dalle trame necessariamente sincopate dei film, che quindi subiscono perdite, sconvolgimenti emotivi, che crescono, osano e si rifugiano nelle regressioni, e spesso, contrariamente al passato, muoiono a volte, sono allora forse figli dei romanzi di formazione, intendendo con questo termine però non strettamente i romanzi tedeschi della fine del Settecento e inizio Ottocento, ma tutte quelle storie che dall'Asino d'oro di Apuleio, attraverso la maratona ultraterrena di Dante Alighieri4 fino alla Recherche e oltre ci hanno proposto percorsi di cambiamento che potevamo scegliere di intraprendere o no. Liberi sempre. E sempre, nella lettura, a vari livelli, in rapporto con l'altro, con il personaggio preferito. L'autorialità e una progettazione di largo respiro delle storie resa possibile dal tempo della serialità ha spesso dato spazio agli autori per usare i propri vissuti culturali, per osare mischiare generi e livelli con citazioni “colte” in riferimento alla cultura più o meno popolare.

TV colta o cult TV
E qui menzionare Joss Whedon è d'obbligo. Non solo per la densità di tali riferimenti, ma anche per il percorso evolutivo della personalità della famosa “cacciatrice di vampiri” e della sua inusuale famiglia. Come esempio si può ricordare, fra numerosi altri, l'episodio numero quattro della terza serie di Buffy the Vampire Slayer (1997-2003) Beauty and the Beasts, quando ben tre dei personaggi devono confrontarsi con la parte selvaggia di sé: Oz, che tre giorni al mese con la luna piena diventa un licantropo, Angel che, tornato dall'inferno, sembra aver perso la sua personalità cedendo alla regredita ferocia di chi è stato costretto a subire torture per tempo immemore, e Pete, compagno di scuola di Buffy e company, che assume una mistura chimica nell'intento di divenire più macho agli occhi di Debbie, la sua fidanzata. Tutti fronteggiano la propria parte oscura e il riferimento, per l'ultimo personaggio soprattutto, a “Lo strano caso del dottor Jekyll e del signor Hyde” di Robert Louis Stevenson è chiarissimo. Il contesto poi è ricco, la tesi non è per così dire uni-lineare in quanto l'intento è dimostrare come
  1. Oz il licantropo, il primo ad essere accusato delle uccisioni che mettono il gruppo in agitazione, è innocente: come a dire che la vicinanza alla propria parte ferina non è sempre un male,
  2. che Angel, quello apparentemente regredito allo stato bestiale, può riprendere coscienza di sé, infatti salva Buffy e la riconosce: come a dimostrare che l'amore può cambiarti in positivo, che è sempre una questione di libero arbitrio e che c'è sempre una speranza,
  3. e che, infine, Pete, lo studente che assumeva una pozione per potenziarsi ed essere più degno della sua ragazza, credeva di usare la scienza e di poter controllare la situazione e invece cade vittima della propria arroganza: proprio a confermare la lezione stevensoniana sulla ambivalenza fra la parte brutalmente istintiva e la parte morale e controllata dell'uomo e sulla ybris di chi usa la scienza senza rispettare i giusti limiti.
In un altro esempio magistrale tratto sempre da Buffy, nella quarta stagione, in cui la cacciatrice va all'università, le categorie freudiane di io, es e super-io vengono citate e usate come chiave di lettura delle crisi e dei percorsi dei personaggi.
Il modo come Joss Whedon ha costruito il dipanarsi delle esistenze dei membri della Scooby Gang è stato anche usato da terapeuti ed insegnanti per esemplificare i passaggi dei momenti della crescita.
E infatti c'è chi è cresciuto con Buffy e X-Files, mentre queste serie, in quanto pietre miliari della storia della televisione, hanno cambiato la storia dei telefilm, spingendo gli autori a concepire prodotti sempre più intriganti e complessi.

Dalla fiction televisiva alla fiction letteraria
Qualche parola deve necessariamente essere spesa per ricordare anche come i tempi di certe serie, stringati, ma ricchi di azione e di dinamiche narrative complesse, abbiano influenzato una buona parte della letteratura di genere, (e quindi alla lunga anche l'altra magari), lo confermano gli scrittori di fantasy, di urban fantasy e di altri generi correlati5, che affermano di tener presente proprio serie televisive come Buffy o Supernatural nello scrivere i loro romanzi, apprendendo la lezione dei tempi sincopati e dei dialoghi veloci dei telefilm, ma anche dell'ironia fulminante e della capacità di sdrammatizzare dei nostri eroi che sparano battute stendendo gli avversari con le loro mosse letali estratte e miscelate da arti marziali varie. Ecco un altro aspetto in cui Buffy e l'Uomo Ragno potrebbero risultare parenti (per carità, nessun suggerimento ai fin troppo arditi sceneggiatori!). CONTINUA ...


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