domenica 15 luglio 2012

The Killing: una serie diversa

Avevo preannunciato questo pezzo su The Killing, la serie prodotta dalla Fox Television Studios e dalla Fuse Entertainment per la rete televisiva via cavo AMC, trasmessa in Italia il mese scorso su Fox Crime, ma non è facile parlare di questo telefilm, o almeno non è facile per me. Il primo motivo è che questa serie si innesta nella tendenza americana a copiare dagli Europei. Un attimo: chiarisco quello che voglio dire. Gli americani SONO originali, in tantissimi modi e non è un caso che io guardi quasi solo serie americane, ogni tanto però, quando vedono una buona idea, sono abbastanza intelligenti da copiarla, a volte con l'arroganza di riuscire a trasformarla in meglio.

Un caso di cui mi ricordo è la serie inglese Being Human. L'originale mi è piaciuto davvero molto. Per dovere di cronaca ho provato a vedere la copia americana, prontamente confezionata, ma la mia (presunta) professionalità non ha retto e ho interrotto la visione: ero troppo affezionata all'originale inglese. Ora arriviamo a The Killing, che a sua volta è la copia di una serie danese,  Forbrydelsen. Questo è il punto! Sicuramente molta dell'originalità che colpisce in questo telefilm poliziesco è dovuta all'originale danese, che, almeno per ora, non ho visto, però bisogna necessariamente dare atto, a chi ha scelto e rielaborato proprio questa serie, che ha scelto molto bene. Perché? Perché questa storia colpisce tanto e rimane in mente tanto a lungo?
Probabilmente per il fatto che i luoghi comuni del giallo investigativo sono presi e rivoltati: tutto quello che siamo abituati a dare per scontato in centinaia di storie di investigazione a cui la televisione ci ha assuefatto sono sviscerati come se ogni fattore fosse vissuto per la prima volta e realisticamente.
Mi spiego. Normalmente c'è un omicidio e i detective sono chiamati a compiere il loro dovere, che è visionare il luogo del delitto, il cadavere, prendere nota delle tracce da seguire e, punto dolente, avvertire i parenti della vittima: l'abbiamo visto centinaia di volte. Bene, siamo abituati a certi luoghi comuni: i poliziotti sono piuttosto avvenenti, i loro fatti personali  ovviamente intervengono nel loro modo di essere e di lavorare, sono legati fra loro in qualche modo, avvertire la famiglia pesa emotivamente e c'è commozione e partecipazione al dolore dei parenti. Il tutto è narrato, in un certo senso, normalmente: vi sono dosi fisse e preordinate di avvenenza, problemi personali e dolore per i congiunti.

Qui invece no. Questi dati sono rivoltati, con una cura e una introspezione psicologica inusuali. Perché il sostrato di vita di Sarah Linden e poi anche del detective Holder che le viene affiancato per l'occasione è pesante, doloroso, trattato con pudore e lentamente svelato in tutta la sua durezza nel corso di due stagioni. Il seguire le tracce, da parte dei due detective, è lento e porta a vicoli ciechi, tanto che comunica l'amarezza dell'errore e le conseguenze orribili per la vita di una persona che è stata accusata ingiustamente. Il lavoro di deduzione e di associazione dei particolari che in genere nelle altre serie porta al momento illuminante della comprensione, qui è lento e abbastanza realistico. Certo, l'intuito e la tenacia di Linden portano all'illuminazione che svela un altro pezzetto di verità, come nella norma degli investigatori intelligenti - non ci siamo ancora arrivati all'"originalità" di portare sulla scena un detective cretino - ma il plus ultra è nel motivo della sua capacità di immedesimazione. La storia di Linden è quella che l'ha portata in un ospedale psichiatrico per un caso che aveva seguito in precedenza, per il quale si era immedesimata a tal punto da non mangiare, non dormire, trascurare anche il figlio adolescente pur di arrivare alla verità. E si capisce che la sua più cara amica è un'assistente sociale. Ha un uomo all'inizio della serie, e dovrebbe trasferirsi per sposarsi con lui, ma non lo fa, perché indizio dopo indizio, falsa pista dopo falsa pista, non riesce a lasciare il caso. Solo nella seconda serie scopriamo che quest'uomo, che ricompare solo un attimo per farla uscire dall'ospedale psichiatrico nel quale è stata rinchiusa, è uno psichiatra che si era innamorato, ricambiato, di lei. Nella sua reclusione, in un colloquio con il medico che l'ha in cura, viene fuori fino a che punto il suo passato di bambina abbandonata dalla madre pesi nel suo modo d'essere: ma l'attrice rappresenta questo personaggio con una recitazione "a levare", senza mai scadere in un facile patetismo.

Holder è un ex-tossico, che va alle riunioni per combattere la dipendenza insieme agli altri. Il rapporto fra questi due è raccontato senza stereotipi, mostrando la profonda diffidenza, i dubbi della donna, che è il boss, nella coppia. NON nascerà attrazione fra i due, il gioco sarebbe troppo facile. La stessa attrice, Mireille Enos, donna molto bella, è quasi imbruttita nella serie e la sua recitazione è intensa, vibratile, dura.  Joel Kinneman, che interpreta Stephen Holder, fa davvero un ottimo lavoro nell'esprimere la durezza, la strafottenza e l'estrema vulnerabilità di questo giovane detective che a stento crede di avere un'altra possibilità di dimostrare la sua capacità professionale, dopo che la dipendenza dalla droga lo aveva spinto a rubare anche al suo nipotino.

Tutto in questa serie si scopre togliendo uno strato dopo l'altro; ogni volta che si pensa ad approdare a una certezza, si comprende che non è così, che c'è altro sotto: sia per i personaggi sia per le svolte del caso. Il tutto è ottimamente costruito, per due scopi: mantenere la suspence e andare più a fondo, senza cadere in troppi stereotipi.
Ma non è tutto: forse la cosa migliore della serie è come vengono trattati il dolore e lo shock in cui versa la famiglia di Rosie Larsen, la ragazza uccisa. Quel rush emotivo che nei gialli normali dura solo pochi minuti, con qualche lacrima dei parenti, qui viene descritto con profondità e attenzione. Bisogna ammettere che il casting per questa serie ha fatto davvero un ottimo lavoro, perché gli attori recitano benissimo, con interpretazioni spesso toccanti. Il padre di Rosie, Stan è seguito nel modo in cui il dolore per la morte e l'assenza della figlia nella quotidianità mordono l'anima e la madre, Mitch, viene analizzata nel suo presente e nel suo passato e nel modo in cui vive momento per momento il trauma dello strappo dalla carne della sua carne. Gli stessi fratellini minori vengono seguiti nel modo in cui reagiscono a quell'evento che ha distrutto la famiglia. Niente è narrato con banalità.

La vicenda dell'investigazione viene associata alla corsa per le elezioni a governatore di Darren Richmond. Qui i topics riguardo ai politici vengono sia riproposti sia sviscerati. L'arrivismo, il fine che giustifica i mezzi, l'idealismo e la convinzione di fare la cosa giusta, a livello umano e a livello politico, vengono analizzati, incrociati, mischiati fra Richmond, i suoi assistenti e i suoi nemici nella campagna elettorale, in modo che nessuno possa farsi un giudizio di nessuno in modo troppo facile e automatico. Persino i cattivi, quando saranno identificati con sufficiente certezza, non saranno ovvi. I luoghi comuni etnici, culturali, iconici vengono rivoltati. A un certo punto un personaggio che eravamo arrivati a non poter considerare colpevole, quando invece il dubbio di nuovo lo trova come bersaglio, entra nell'ascensore, poco prima che l'episodio finisca, e fissa lo sguardo nella camera da presa. Fissa noi che lo guardiamo, rompendo le convenzioni sceniche, in un modo veramente molto inquietante.

Alcuni hanno accusato la serie di lentezza, ma non è così. C'è un ottimo mix fra i colpi di scena, i plot point, e il realistico faticoso lavoro di investigazione. E attenzione che qui non c'è il lato scientifico dei procedural drama che affida ai patologi legali, agli esperti informatici, alla scienza insomma, il compito di risolvere i problemi. I computer ci sono, ma non sono tutto. La stessa città, Seattle, fa parte del fascino della serie. Claustrofobica per la pioggia persistente, grigia e fredda come la determinazione con cui il detective Linden vuole risolvere questo crimine come se volesse sanare il trauma della sua vita segnata dall'abbandono e dalle adozioni sfortunate. La stessa Rosie Larsen, che compare solo per fotogrammi nella sigla, viene svelata a poco a poco: gli spettatori, come i detective e il pubblico di Seattle, condotto per mano dalla stampa impietosa e invasiva, sono portati a farsi delle idee su questa ragazza di cui si capisce di non sapere nulla. E' un mistero come la sua morte. Sappiamo tutto del suo omicidio dalla sigla, ma di lei sapremo qualcosa davvero nell'ultimo episodio della seconda stagione. Ci parlerà direttamente, sarà protagonista di alcuni flashback e noi vedremo tutto dal suo punto di vista.
L'immagine che in qualche modo sintetizza la serie è espressiva del suo tema principale: vediamo Linden, con la sua eterna mise, pantaloni,indumenti pesanti e coda di cavallo, di spalle a guardare un panorama tetro e nebbioso, come ad ascoltare le vibrazioni di quello che è avvenuto: la celebrazione del male, dell'ingiustizia, l'uccisione di una ragazza innocente, ma anche il messaggio che questa sembra mandare, con la sua vita e con la sua morte, indecifrabile, misterioso. Lei Sarah Linden rimane lì, senza sottrarsi al grigiore e alla pioggia, finché questo messaggio non sarà compreso e svelato: la giustizia è un'esigenza viscerale, non il rito di uno Stato assente e delle sue istituzioni indifferenti.
Così, ecco, le farfalle e la pioggia. Che hanno a che fare le une con l'altra? Be', se vi riesce e se non lo avete ancora fatto, vedete questa serie e lo saprete.

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